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Hanno scritto di Gaetano Giuffrè

raffaele la capria

Raffaele La Capria per Gaetano Giuffrè 

 

Come ogni bella nuova canzone ti sembra di averla già sentita (è questa la sua vera novità, vuol dire che era già dentro di te e ci voleva qualcuno che la tirasse fuori), così è stato di colpo a prima vista l’impatto, l’urto vorrei dire, del mio sguardo con queste sculture di Gaetano Giuffrè. La loro evidenza, la loro verità, si è immediatamente imposta. Io questi volti, io questa gente, l’ho già vista, la vedo ogni giorno, io questi li conosco, li ho incontrati dovunque, nelle strade di Roma nei vicoli di Napoli, nelle periferie delle città, ma anche a piazza del Pantheon o a piazza Navona, a Campo dei Fiori, facce dure da pugili suonati, o facce che esprimono una attonita vitalità, una concreta volontà di esserci malgrado tutto. E’ la nuova umanità irregolare venuta fuori con la modernità, con quella mutazione delle facce di cui diceva Pasolini, un’umanità non più designabile con le vecchie categorie, borghese, popolare, operaio, plebeo ( si distinguono per l’orecchino, il tatuaggio, le acconciature dei capelli), ma con una più generale che era già usata a Napoli: creature. E naturale, nel senso di antico, ancestrale, ferocemente viva, è questa umanità rappresentata nelle sculture di Gaetano Giuffrè. Ma è anche dal punto di vista formale la sua una scultura colta, uno strano innesto tra il realismo di un Gemito e l’espressionismo deformante di un Bacon, dove la crudeltà e la disarmonia sfidano la bellezza e la ritrovano nelle figure mostruose e contorte restituita in un urlo lancinante a dire la loro verità. 

C’è a piazza del Pantheon un povero essere in un carrettino spinto a mano che mostra ai passanti due gambe nude dai piedi anchilosati: è uno dei tanti mendicanti venuti da paesi più poveri del nostro e sbattuti su queste piazze a chiedere l’elemosina di cui altri si impadronirà. Ho pensato anche a lui a quel mendicante, alle forme estreme del dolore e della povertà, guardando alcune delle figure più surrealisticamente rappresentate in queste sculture di Gaetano Giuffrè

 

     Toti O'Brien

      CUT

     L’ARTE DI  GAETANO GIUFFRE - SCULTORE

 

     Una volta, a tua richiesta, ti ho detto quel che pensavo di alcuni pezzi. Un gruppo specifico: i corpi, che nel  tuo lavoro compaiono meno.

     Non scolpisci corpi di solito. Scolpisci teste. Ma hai avuto anche un periodo di torsi, addomi, braccia, gambe – tutto decapitato.

     Evidentemente le due categorie non si abbinano.

     Il che e’ un dato, un’affermazione, un punto d’inizio.

      Come me lo spiego?

     La dicotomia e’ ovvia nel mondo in cui siamo cresciuti - stessa famiglia, stessa patria, stessa epoca. Una cultura ancora intenta a dividere il serio dal faceto, lo spirito dalla materia, l’intelletto dai muscoli. Ancora borghese-quanto-basta per decidere cosa andasse mostrato (la facciata) e cosa nascosto (l’istinto animale, pardon, bestiale).

     Quanto sopra e’ ovvio appunto. Troppo, dunque dev’essere la pista sbagliata.

     Ma la seguo ugualmente, non si sa mai.

 

     Guardo prima le teste. Ne hai fatte a centinaia. Forse nello spirito del ritrattista? Potrei capire quel tipo d’ossessione.

     Ma non ritraggono alcuno. Qualche volta, e’ vero, parti da una foto, poi l’immaginazione prevale. Le teste sono inventate. Non per questo meno reali. Reali e non realistiche, se riesco a spiegarmi.

     Dovrei dedurre che poiche’ non ritraggono alcuno siano tentativi di autoritratto, seppur metaforici? Non mi sembra. Manca il sapore, anche solo l’odore del narcisismo. Manca quella monotonia opprimente, coatta.

    Allora di chi sono? A chi somigliano? Se i soggetti sono astrazioni… astrazioni di cosa? Svolgono una critica sociale? Elaborano il concetto di razza? Illustrano una ricerca di ordine etico? Psicologico? Esprimono emozioni, sentimenti?

     Buona domanda.

     La maggior parte dei volti e’ impassibile. Alcuni alludono ad espressioni minime e vaghe… qui un’ombra di preoccupazione, li’ un’aura d’autorita’… poco convincenti, subito negate per riconfermare il tono generico che tutte accomuna.

      Non ci sono individui distinti, personaggi, caratteri che si distinguano. Neanche quelli che sono cresciuti dal collo in giu’ per qualche centimetro, rivelando un abito che rimanda a un contesto, un’affiliazione. Per esempio una tuta da lavoro. Un papillon. Un collo alto, un completo scuro. Neanche questi sono personaggi.

     L’espressione (sempre quella) e’ un misto di pensieroso ed attonito. Una serenita’ cosi fragile che sconfina in malinconia. Uno stupore che si fa passare per  saggezza. Una consapevolezza forse troppo discreta (sembra ingenuita’).

     Ma non credere che tale uniformita’ annoi. Al contrario. La diffusa somiglianza accentua ed esalta le varianti. I sottili cambiamenti da un volto all’altro spingono a ipotizzare uno sviluppo, immaginare una storia che culmini nella rivelazione di un segreto.

     Ansia inevitabile, ahime’, quanto inutile. Se il segreto c’e’, e’ ben protettto. Questa gente e’ completamente muta.

     Come lo so? Non e’ muta per definizione qualunque statua?

     No. Guarda alle labbra prima di tutto. In moltissime statue – classiche, romantiche, espressionistiche – le labbra respirano. Chiuse o aperte che siano fanno passare aria, cioe’ suono, udibile o meno. Cioe’ parole, linguaggio.

     Queste teste hanno labbra serrate. Sigillate oppure rigide, inerti, incapaci di articolazione. Queste labbra hanno rinunciato da tempo immemorabile.

     Ne dovrei dedurre che se non parlano non hanno niente da dire. Non esprimono nulla perche’ nulla provano. Nulla accade.

      Falso. Guarda meglio. Osserva queste sfumature di calma apparente. Stoica e’ il termine esatto per definirla. Sanno come dominarsi, le teste, naturalmente. Devono aver appreso autocontrollo, compostezza, apparente indifferenza fin dalla culla.

       Ma qualcosa succede. Sotto la cintura, dove non possiamo vederlo e dove, per l’appunto, si assegnano i colpi bassi.

 

         Ora guardiamo i corpi.

     Raccontano tutta un’altra storia. E’ per questo che se ne stanno da parte, per conto loro.

     Queste teste avrebbero bisogno di corpi ordinati. Arti che sappiano di compostezza, braccia di lato, palmi aperti contro le cosce. Piedi paralleli, uno accanto all’altro. Spalle distese, torace decontratto, schiena dritta. Tutto simmetrico ci si aspetterebbe, a giudicare dai lineamenti che abbiamo osservato a centinaia.

     Dunque i corpi che hai concepito, qui, davvero non vanno con le teste. Fanno quello che pare a loro, topi in festa quando il gatto riposa.

     Piu’ che una festa e’ un’orgia, seppure solitaria.

     Sono soli, i corpi – avevo dimenticato di dirlo - e incompleti. Privi non soltanto dell’estremita’ superiore… spesso mancano un arto o due. O una frazione, un frammento d’arto.

     Sono corpi in costruzione questi, in fieri,  intenti a fabbricare se stessi ma senza una mappa. Le istruzioni dall’alto non sono pervenute. O sono state perse, ignorate.

     La partita non e’ interamente persa.

     Senza dubbio qui le emozioni ci sono. Queste braccia e gambe hanno sentimenti e ce li comunicano. Entusiasmo tanto per fare un esempio. Ce la mettono tutta a stare in piedi, anche se a volte finiscono a testa (a collo) in giu’. Confusi ma non troppo. Pronti a ricominciare tentando di reggersi su una gamba sola, su supporti mal assortiti, sbilanciati.

     Amputati, deformi, avvolti su se stessi come contorsionisti, puntano alla luce come farebbe una pianta. Ed infatti ricordano i tronchi di antichi ulivi, piegati dal vento ma indomiti. Le radici si aggrappano alla terra, scavano nel profondo, succhiano ogni goccia d’acqua residua tra le rocce e la sabbia.

      Definire questi corpi monchi, sfigurati, feriti, e’ pero’ un’interpretazione sbagliata. Associarli con quarti di bue appesi in un mattatoio e’ fuorviante. Chiaramente quel che a queste creature manca non e’ stato portato via. Sta nascendo. Non ne vediamo solo il potenziale. La crescita e’ in atto.

     Non ci troviamo di fronte a residui, spoglie, rigetti. Osserviamo embrioni che vanno assumendo la loro forma completa. Della quale non hanno la piu’ vaga idea ne’ se ne inquietano. Il risultato conta poco. L’impeto e’ tutto.

     Una metamorfosi, dunque? Si’ e no. Non nel senso della mitologia classica in cui esseri umani, a causa di condannabili trasgressioni, vengano ridotti a forme inferiori (minerale, vegetale, animale…) dalle divinita’ offese.

     No. Se qui c’e’ una mutazione, qualcosa e’ in processo di diventare umano. Ci sta riuscendo. E’ questione di minuti.

     La maggior parte dei corpi ha una bocca. Senza testa? Appunto.

     Stanno sperimentando, attaccandola dove possibile. Cioe’ dovunque siano arrivati. Al moncone di un collo, al polso, al ginocchio. Perche’ non al gomito?

     Queste bocche non hanno labbra serrate…

     Ho la prova che puoi scolpire bocche alla perfezione, nei minimi dettagli. Semi-aperte, aperte, spalancate. Con i denti in vista, il palato e soprattutto la lingua. Lingua fuori, non so ancora perche’.

     Per parlare. E’ possibile? Tutto cio’ che le teste non volevano o non potevano dire adesso straborda, straripa. A livello degli arti precipita fuori.

     Forse, o forse no. Certo i corpi hanno una tendenza discorsiva… Narrativa.  Capiscono la necessita’ del comunicare e non si tirano indietro. Alla contemplazione preferiscono il contatto, di cui l’urgenza e’ evidente. Che possiedano il linguaggio, pero’, non sono sicura. Probabilmente no. Con la lingua forse stanno assaggiando la vita. Un sapore dimenticato.

     Il sapore dell’aria innanzitutto. Aspro ed irresistibile. Stanno imparando a respirare, e la cosa non e’ automatica. Non sempre. Non per tutti.

 

     Alcune delle tue sculture hanno storie.   

     E’ una novita’. Hanno uno sfondo, un background che allude a una temporalita’ previamente negata. Sia alle teste - senza eta’, sospese in un eterno presente come la bella addormentata e l’intera sua corte – sia ai corpi appena nati, tesi furiosamente verso il futuro. Vomitando futuro ogni secondo, privi d’ogni passato.

    Alcuni pezzi recenti, dicevo, hanno un territorio, un terreno dietro le spalle, materia solida in grado di ancorarli. E di esprimere quel che le figure invece non dicono. Memorie abbozzate: il rilievo di una parete, un palazzo, la carta da parati di un salotto o di una camera da letto, forse una scrivania, le piastrelle di una cucina o invece e’ una piscina, un fiore, un insetto, le ali aperte di una farfalla.

     Una sorpresa, quest’ultima. Evoca una frase di Richard Bach, abusata, non ancora priva di senso. “Il maestro chiama farfalla quel che il bruco chiama fine del mondo”. O parafrasando appena: “il bruco chiama fine del mondo quel che il resto del mondo chiama farfalla”.

      Per l’appunto. Questi corpi in lotta, goffi e un po’ imbarazzanti, con le loro arie alla Bacon, mi ricordano piu che mai le crisalidi. 

     Mi ricordano antenne dispiegate con sforzo, come punta di dita cieche eppure ostinate. Crisalidi intente a strapparsi il guscio con sangue e sudore (accade anche agli insetti), disfacendo vecchie bende ormai attaccate alle pelle.

     Poi - in caso ancora ne dubitassi – si alzano in volo.

 

     * Cut e’ stato pubblicato in inglese in Sein und Werden, Corpus Issue, 2016

 

 

Franco Serpa

 

Nell'arte un rapporto primario con la figura umana, sebbene sia meno insolito oggi che nei decenni passati, è pur sempre motivo di sorpresa,  e di conforto per chi abbia un'idea positiva del fine dell'arte stessa: di conforto tanto maggiore quando il rapporto sia poi diretto e deciso, come è nel lavoro di Gaetano Giuffrè.

Egli plasma, infatti, volti e busti, e quando noi li guardiamo, sentiamo subito in essi, prima di giudicarli, un'intelligente e coraggiosa fiducia in ciò che è nobile, equilibrato, vigoroso nell'animo umano e quindi nella bellezza della sua realtà corporea. Nelle forme da giuffrè laboriosamente studiate mi pare di scorgere un'impronta, grande o piccola che sia, sulla strada, difficoltosa nel nostro secolo, dell'umanesimo positivo, quello che nell'individuo, appunto, nelle sue idee, nella volontà, nelle opere ha trovatol'origine di ogni espressione estetica.

Se per i lavori di Gaetano Giuffrè questo è vero, 

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